L’addio (o arrivederci?) di Yoan Fanise (ex Ubisoft) è solamente uno dei tanti casi che abbiamo conosciuto nella storia videoludica. Una storia che sta cambiando negli anni, nei mesi e ogni giorno che passa. Una storia che vede una crescita davvero esponenziale del settore, sia dal punto di vista delle tecnologie e dell’innovazione dei videogame, sia dal punto di vista degli introiti, dei guadagni e degli investimenti.
Ma come siamo arrivati a questo? Cosa spinge gli sviluppatori più intraprendenti e capaci (vedi lo stesso Yoan Fanise… e a quest’ultimo aggiungiamoci anche Ken Levine e Cliff Bleszinski, rispettivamente padri di Bioshock di Gears of War) ad abbandonare le software house che gli hanno dato un lavoro, che gli hanno permesso di farsi un nome nell’industria e di acquisire una notevole esperienza? La risposta può essere tanto banale, quanto semplice e ovvia: è colpa del business.
Le maggiori produzioni necessitano di enormi investimenti e di conseguenza di un alto numero di addetti ai lavori. Come affermato da Yoan Fanise, ciò è assolutamente fondamentale. Un Assassin’s Creed III, ad esempio, difficilmente avrebbe potuto raggiungere il mercato, se non ci avessero lavorato qualche centinaio di persone. Questo ci sta assolutamente, il problema – a detta di Fanise – è un altro; l’aggiunta di vari reparti di sviluppo, formati da innumerevoli persone, porta ad un problema di base. Cosa? Il contatto umano. In molti potrebbero esclamare tranquillamente: “E quindi?” Bene. L’impossibilità di confrontare la propria visione con quella di tutte le persone impegnate nello sviluppo di un videogioco, può rappresentare un ostacolo concreto. Insomma, metaforicamente tappare le ali alla creatività di ognuno di loro, andando a creare un prodotto magari forte dal punto di vista del marketing e debole da quello dello sviluppo. Con Assassin’s Creed III le cose – fortunatamente – andarono bene, tralasciando la presenza di alcuni fastidiosi bug. Il marketing ha poi giovato (e continua a giovare) la serie, nonostante i continui errori di programmazione, contenuti nel codice di sviluppo del gioco. L’esempio più emblematico è rappresentato da Assassin’s Creed Unity, il capitolo della serie Ubisoft più travagliato sotto questo punto di vista.
Tornando a prima, Yoan Fanise ha tentato di tenere duro. L’ultimo progetto su cui ha lavorato come director per la software house francese è stato proprio Valiant Hearts: The Great War. Come ha scritto Fanise, per lui questo piccolo, ambizioso ed emozionante videogame è stato un tuffo inaspettato nel passato. Il lavoro profuso per la realizzazione di Valiant Hearts fu talmente ispirato da entusiasmare persino Yves Guillemot, il CEO di Ubisoft. Ebbene, ma qual è la morale di questa storia? L’interessante racconto ambientato nella prima guerra mondiale realizzato da Ubisoft Montpellier per PC, PlayStation 4, Xbox One, PlayStation 3, Xbox 360 e dispositivi iOS, ha ottenuto nel suo piccolo un grandioso successo; difatti è stato acquistato da oltre un milione di persone. Un ottimo risultato, ma solo una piccola stella in un cielo stellato per Ubisoft, abituata a ben altri numeri grazie ai suoi blockbuster come Assassin’s Creed, Far Cry, The Crew, Watch Dogs ecc.
Il videogioco ha un anima e le personalità sfuggenti, creative e competenti come Yoan Fanise hanno bisogno di un loro spazio. Il business è una componente oramai fondamentale ma un altro mercato, quello indie, sta dimostrando che la creatività, la coesione e la ricerca del particolare e dell’originalità, possono dare una linfa nuova a questo settore: ormai è una realtà sotto gli occhi di tutti e – in questo caso – sotto gli occhi di Yoan Fanise. Abbandonare Ubisoft dopo ben quattordici anni, deve essere stata una notizia ben meditata. Voi che ne pensate in merito?
In attesa dei vostri commenti, torno a giocare a Valiant Hearts: The Great War. È uno dei titoli PlayStation Plus per PS4 del mese. Perché farselo scappare? Buon gioco!