Analizziamo le peculiarità e le caratteristiche maggiormente fraintese della saga dei Souls!
La serie di Dark Souls ha da sempre riscosso grande successo, prima tra gli appassionati e poi anche tra il grande pubblico. Tanto è stato il successo della saga che, da un po’ di tempo a questa parte, nel gergo giornalistico è iniziato a proliferare il termine soulslike, ad indicare appunto i prodotti chiaramente ispirati all’opera di From Software. Tralasciando la correttezza della novella nomenclatura, l’articolo odierno punta ad esaminare più a fondo le dinamiche che hanno portato Dark Souls ad imporsi come standard ludico, o meglio come capostipite di un genere a sé, capace di influenzare così massicciamente l’opinione del pubblico.
Perché Dark Souls è diventato un fenomeno di mercato?
La saga ha inizio, nella sua forma più famosa, con Demon’s Souls, considerato un precursore ideologico della più coesa trilogia di Dark Souls. Caratteristiche principali dei quattro prodotti risultano essere la trama criptica e di difficile ricostruzione, l’assenza di guide all’interno del gioco (tanto che le giocate “alla cieca” vengono considerate ad oggi quasi una prova di masochismo) e un sistema di combattimento ostico ma ottimamente congegnato. A ben vedere però, il vero merito dei titoli è stato quello di riuscire a bilanciare questi aspetti in un unico prodotto, fornendo al fruitore un GDR dai tratti peculiarissimi. Ed invero, non si può negare che molti altri titoli abbiano dal canto loro utilizzato tecniche similari, molto prima che si affermasse con forza la moda del soulslike.
Dragon’s Dogma e Monster Hunter, con le dovute differenze, forniscono per esempio sistemi di combattimento egualmente complessi, similarmente votati alla tattica ed all’approccio paziente e meno action dei concorrenti occidentali. Ma anche dal punto di vista della trama, l’assenza di dialoghi corposi e di momenti dedicati esclusivamente allo “spiegone” narrativo non è certo un’invenzione di From Software, quanto un ritorno all’approccio ruolistico esplorativo.
Ornstein & Smough, guardiani della città degli dei Anor Londo.
LEGGI ANCHE: La nostra recensione di Dark Souls 3!
L’elemento però di maggior caratterizzazione, e anche di maggior fraintendimento, è indubbiamente la difficoltà. Al netto delle scelte di game design, Dark Souls ha creato una pletora di fan, accaniti sostenitori della purezza della difficoltà assoluta, assetati di sangue e sofferenza, erti a paladini della supremazia del titolo nell’olimpo dei GDR di nicchia, soprattutto se confrontato con altri corrispettivi molto più dediti all’azione, al risultato immediato ed alla cosiddetta facilità esecutiva. Nulla di più sbagliato. Basta volgere un attimo lo sguardo al passato per capire che la saga non è affatto difficile o punitiva, ma solo ispirata ad un concetto di gameplay profondamente diverso da quello sviluppato in terra occidentale a partire dal nuovo millennio. Dark Souls, che per i più fanatici rappresenta una nicchia di puro sadismo videoludico, non propone praticamente mai scelte punitive. Semplicemente si basa su una costruzione spiccatamente nipponica, fondata sul repetita iuvant, sul farm forsennato, sulla memorizzazione dei pattern, sull’esplorazione e, soprattutto, sulla necessità di rigiocare per intero l’opera. Tanto che il prodotto prevede di per sé, alla fine della prima run, una modalità new game + la quale non solo aumenta la difficoltà dei nemici, ma mantiene intatti anche livelli e oggetti del personaggio, offrendo un vero e proprio continuo narrativo. E sempre guardandosi indietro nel tempo si scopre che gli antenati della trilogia (King’s Field e seguiti) ad oggi sono considerati dalla elité – perché all’elitarismo non c’è mai fine – nettamente più difficili e belli (sic!) dei successori. Un cane che si morde la coda? No, semplice mancanza di contestualizzazione. Dark Souls si è imposto negli anni per aver saputo proporre ad un pubblico generale (mondiale potremmo dire) un approccio spiccatamente orientale, pur senza sfociare nel vero e proprio JRPG. E d’altronde la prova contraria si ha in videogiochi di matrice occidentale i quali, anche se altrettanto ostici, non sono assurti a mito esclusivamente per la loro difficoltà (un esempio su tutti è la serie di Gothic, che pur con ammenicoli vari quali mappe, diari e radar di gioco risultava davvero un osso duro da rodere).
La conclusione è piuttosto semplice. Negare a Dark Souls il merito di aver creato a suo modo un vero e proprio sottogenere sarebbe ingiusto. Negare che il titolo non sia una passeggiata in campagna lo sarebbe altrettanto. Ma travisare l’ccezionale lavoro di bilanciamento e game design, di chiara ispirazione retro-nipponica (tanto per l’approccio di farm, quanto per l’ermeticità dei contenuti narrativi), attribuendo a From Software la creazione di veri e propri sistemi di gameplay è sbagliato, oltreché poco rispettoso di tutti i titoli a cui dover rendere grazie per essere arrivati, oggi, a poter godere dell’amata trilogia. Ed ancora anche il discorso difficoltà sarebbe tutto da riconsiderare alla luce della maggiore apertura del pubblico ad un game design che non è stato volutamente considerato come adatto per il nostro mercato e che ora invece spinge per una pletora di cloni, affini, competitors o semplicemente ispirati (Lord of the Fallen, Dark Mouse, Nioh e via discorrendo). Sono forse meno “difficili”? Siamo tutti diventati più bravi? Piuttosto siamo riusciti ad aprire gli occhi di fronte ad un prodotto a noi meno familiare, e non possiamo fare altro che ringraziare.