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Il mio inaspettato amore per i videogiochi made in Japan

Personalmente, mi sono sempre ritenuto un videogiocatore dalle ampie vedute, mai focalizzatosi su di un singolo genere preferendo piuttosto ampliare le mie possibilità. Nel corso di 15 anni d’onorato servizio videoludico, ho avuto modo di poter interagire con infiniti brand dalle incredibili qualità, sono entrato in contatto con il tanto enorme quanto affascinante universo indie ed ho potuto godere del piacere offertomi da produzioni AAA sviluppate con cuore e passione. Chiaramente, mi è anche capitato di dover affrontare terribili scivoloni dell’industria, opere realizzate con tanta svogliatezza e mancanza d’attenzione da essere ancora ben impresse nei miei peggiori incubi; alla fin fine sono incidenti di percorso a cui tutti noi videogiocatori dobbiamo fare il callo, in un modo o nell’altro.

Resident Evil 7 - Capcom ha fatto centro con la strada intrapresa dall'ultimo capitolo del suo brand

Esiste però un intero universo videoludico che è rimasto a me totalmente sconosciuto per pura e semplice ignoranza, un mercato di cui raramente sentiamo parlare e nei confronti del quale difficilmente abbiamo modo di conoscere novità rilevanti, ovvero quello del Sol Levante. Sia chiaro, nel corso degli anni ho avuto modo più volte di entrare in contatto con tale industria, basti pensare ai Final Fantasy di Square Enix, al Resident Evil che ha fatto la storia di Capcom o agli incredibili Metal Gear Solid che portano la firma di Hideo Kojima, ma parliamo pur sempre di brand estremamente famosi in tutti il mondo, pochi piccoli classici della nostra epoca che sono riusciti a far breccia nel cuore di milioni di videogiocatori ben oltre le iniziali aspettative dei loro stessi sviluppatori. Quello a cui mi riferisco io è un mondo ben più celato, un settore ludico pieno di piccole perle che molti utenti non conoscono neanche per nome, un grande universo che, ironicamente, ho avuto modo di scoprire grazie alla console più bistrattata di mamma Sony.

Dalle stalle alle stelle

Tutto ha avuto inizio con il disastroso declino di PsVita, l’ultima portatile targata Sony che aveva inizialmente fatto gridare al miracolo per le sue portentose capacità tecniche. Era stata pubblicizzata come una Playstation 3 in miniatura ed in molti, me compreso, ci credettero. Non che ci fosse motivo di dubitarne, in verità, visto e considerato che la line-up venutasi a formare nel primo anno di vita della console si rivelò essere a dir poco entusiasmante. Uncharted, Wipeout, Gravity Rush, un Call of Duty ed un Bioshock appena annunciati che avrebbero dovuto rappresentare due punte di diamante nel catalogo di PsVita, tutto sembrava stesse andando per il meglio; e poi, il sogno cedette il posto alla dura realtà dei fatti. Dopo il pesante insuccesso di alcuni titoli molto attesi dai videogiocatori – primo fra tutti, Call of Duty: Declassified – e le vendite non entusiasmanti della console, Sony decise di correre ai ripari investendo sempre meno in nuovi progetti esclusivi e cancellandone di altri ancora in corso, come il già citato Bioshock di Levine che, alla fine, non vide mai la luce. Il sopraggiungere della nuova generazione videoludica, che avrebbe visto il duro scontro tra Xbox One e Playstation 4, fu poi il colpo di grazie per PsVita, che ben presto venne interamente abbandonata in termini di progetti AAA esclusivi.

Persona 4: Golden - Atlus non ha mai mancato il bersaglio con la sua IP

Fu proprio nel pieno di quella così disperata situazione che ebbi modo di scoprire cosa fosse realmente in grado di fare la mia console. Non sarebbe stata mai ricordata come la macchina da gioco definitiva per gli FPS o per i platform, ma sarebbe riuscita a conquistarmi per l’incredibile mole di opere giapponesi disponibili nel suo store. Persona 4: Golden fu il primo vero colpo al mio fragile cuore. Un JRPG magistrale, curato in ogni dettaglio e capace di mettere in mostra un’attenzione maniacale sul profilo narrativo, con un risultato qualitativo finale che molte delle nostre opere più blasonate dei tempi avrebbero potuto vedere giusto con il binocolo. Da lì in poi, fu un’escalation continua di nuove scoperte che ben presto mi avrebbero portato anche su piattaforme di gioco ben lontane dal dominio di Sony. Da Persona 4 passai a Freedom Wars, Soul’s Sacrifice, Disgaea, Dragon’s Crown e molti altri titoli ancora che sarebbero andati a riempire il già risicato spazio della mia PsVita – un grazie a Sony per le sue memory card dai prezzi esorbitanti, comunque –, per poi giungere agli Shin Megami Tensei per 3DS, a Catherine, ai Tales of e agli Yakuza per Playstation 3, a Monster Hunter e Xenoblade Chronicles X per WiiU, e così abbiamo appena scalfito la punta dell’iceberg.

Con il tempo, ebbi poi modo di scoprire anche particolari generi ludici a me totalmente sconosciuti, primo fra tutti, le visual novel, opere che in molti probabilmente faticherebbero anche solo a definire videogiochi; provate a giocare con quella perla di Danganronpa, e poi ne riparliamo. Per dovizia di particolari, è giusto specificare come ben presto mi sia pure avvicinato a quel mondo videoludico orientale più propriamente a sfondo erotico che qui da noi ha ben poco seguito. Si passa da Akiba’s Trip, action in terza persona dove il tuo compito è dar giù di mazzate contro vampiri dalle sembianze umane al fine di distruggerne i vestiti e lasciarli in biancheria intima per far sì che la luce del Sole li disintegri, a Nekopara, visual novel in cui impersonerete un aspirante pasticciere in un mondo dove però esistono anche donne gatto – che praticamente altro non sono che normalissime ragazze con coda ed orecchie da felino –, fino a giungere al più conosciuto Senran Kagura, action in cui le protagoniste dovranno scontrarsi contro un’enormità di avversarsi dello stesso sesso sfruttando abilità e mosse uniche, quindi preparatevi a godere alla vista di adorabili ragazze che dalla gonna tirano fuori mitragliartici pesanti e raggi della morte, uno spettacolo capace di appagare il gusto e la vista. Uno degli aspetti più interessanti del mercato videoludico giapponese riguarda però le sue nette differenze con i titoli occidentali.

Project Zero: Maiden of Black Water - Il Giappone è sempre stato molto prolifico in termini di survival horror

Uno degli esempi più rappresentativi di tale discorso è facilmente identificabile nel contesto dei survival horror di stampo nipponico. Che si parli di zombie, di demoni, mostri o qualsiasi altra creatura degli orrori, i team di sviluppo occidentali puntano sulla paura diretta, sul prenderci alla sprovvista grazie ad improvvisi colpi al cuore susseguiti da violente scene capaci di ribaltarci lo stomaco; al contrario, in oriente si punta ad un terrore più indiretto, basato in particolar modo sul lasciarti sulle spine, dando forma ad un continuo e lento crescendo di apparizioni e suoni sinistri meno improntati al facile jumpscare quanto piuttosto indirizzati alla creazione di un senso d’ansia sempre più opprimente ed incalzante, con forte accento nei confronti del carattere psicologico dei protagonisti, spesso e volentieri caratterizzati da un passato oscuro e ricco di rimpianti. Sono proprio queste diversità che ci hanno portato a coniare il termine “giapponesate”, quel modo di dire che oramai viene tanto spesso accostato ad ogni prodotto sopra le righe annunciato in Giappone. Ovviamente, ci sono stati casi particolari in cui le parti si sono invertite, basti pensare al già citato Resident Evil, ma parliamo di casi isolati, eccezioni che vanno a confermare la regola oramai ben impressasi con forza nella nostra industria.

La miniera d’oro del videogaming

Nel corso degli ultimi anni, è indubbio che il mercato videoludico giapponese abbia dovuto fare i conti con una grave crisi che ha danneggiato non poco l’intero settore. L’incapacità di evoluzione di brand ormai stantii da fin troppi anni unita ad una generale perdita d’interesse del pubblico nel mercato console a favore dei dispositivi mobile si è fatto sentire pesantemente nel Sol Levante, tra software house fallite e innumerevoli progetti cancellati che portarono molti a decretare la sicura caduta dell’intero mercato orientale; un terribile crollo che non si è mai verificato. Nonostante la crisi che ha momentaneamente colpito l’industria, infatti, quest’ultima è comunque riuscita a rialzarsi con le sue gambe presentando al pubblico, soprattutto nel corso di questo 2017, titoli dall’indubbia qualità. Da Yakuza 0 a Tales of Berseria, da Gravity Rush 2 fino a Persona 5, per poi passare a Zelda: Breath of the Wild, Nier: Automata, Splatoon 2, Nioh e molto altro ancora, un insperata sequela di successi che non solo hanno portato una ventata d’aria fresca in un settore che sembrava essersi arenato, ma che si sono rivelati anche capaci di ridare vitalità ad un pubblico che ormai da tempo sembrava aver perso il suo interesse nei confronti dell’industria.

Zelda: Breath of the Wild - Nintendo ha saputo conquistare nuovamente il suo pubblico

Eppure, nonostante ciò, sono ancora molti quelli che non hanno neanche idea dell’esistenza di determinate opere uscite nel corso di questi mesi, a volte per semplice disinformazione, in altri casi per mancanza d’interesse, spesso dovuto alla certezza che determinati giochi non possano avere le capacità per soddisfare le proprie necessità videoludiche, ed è proprio qui che giungiamo al punto focale di questo mio piccolo articolo personale. Prima di essere un redattore di Kingdomgame, io sono innanzitutto un videogiocatore come chiunque altro, desideroso di giocare nuovi titoli, spaventato dall’idea di poter investire i miei risparmi in opere incapaci di conquistarmi ed afflitto da quel senso di nostalgia per un tempo ormai passato in cui DLC, microtransazioni ed altre amenità varie non erano state ancora concepite. Ho vissuto momenti di piena in cui tutto quel che giocavo sembrava oro colato ed altri in cui mi sono completamente distaccato dal medium per mancanza di nuove valide offerte capaci d’invogliarmi a riprendere il pad in mano.

Proprio in riferimento a questi momenti bui, l’industria giapponese ha saputo darmi uno spiraglio di luce, permettendomi di vivere quelli che probabilmente sono stati gli anni per me più prolifici di sempre in ambito gaming, una situazione in forte contrapposizione con ciò che molti vedono in quest’ultima generazione videoludica, una generazione di remastered, remake e ricicli infiniti; l’enfasi sull’open-world fin troppo forzato, il multiplayer dilagante, IP che si scambiano vicendevolmente meccaniche ludiche manco fossero carte Pokémon. Sempre più spesso mi capita di leggere su forum e siti specializzati lunghe discussioni dove centinaia di persone mettono in mostra tutto il loro disagio, desiderosi di vedere il loro medium preferito esplodere in tutto il suo immane potenziale solo per poi dover fronteggiare l’ennesima IP targata Ubisoft che sembra un minestrone tra Far Cry, Watch Dogs ed Assassin’s Creed, costretti ad osservare brand carismatici e profondi come Mirror’s Edge che vengono mandati al macello e contaminati con caratteristiche di gameplay totalmente inutili e capaci solo di rovinare qualsiasi buona idea fosse stata precedentemente intrapresa.

Skull & Bones - La nuova IP di Ubisoft che sa di vecchio

Giornalmente, ho modo di parlare con centinaia di persone – grazie alla piccola community da 6000 anime che mi sono ritagliato su Youtube – e noto con sempre maggior facilità un senso di delusione che imperversa sovrano in ogni post e commento che mi capita sottomano. Delusione perché non c’è innovazione, delusione per colpa di questa imbarazzante fissazione con i 4K e la grafica super pompata, oramai per molti unico metro di paragone per giudicare la qualità di un opera, delusione per un hobby nei confronti del quale si continua a dedicare tempo e denaro ma che sembra essere caduto in una spirale di mediocrità. Il consiglio spassionato che voglio darvi, quindi, è quello di concedere una chance a questo enorme mondo nipponico, informatevi a riguardo e provate con mano ciò che effettivamente è in grado di proporre, perché il rischio che vi ritroviate a vivere una vera e propria età dell’oro videoludica è tutt’altro che esigua.

Comprendo i timori, capisco la diffidenza che si prova quando ci si deve avvicinare a qualcosa di mai visto prima, io stesso ho provato quella sensazione di smarrimento, il sentore che facendo la mossa sbagliata avrei finito con lo sprecare risorse che avrei potuto invece investire in ben altro, ma alla fine mi sono voluto comunque buttare nella mischia, ho voluto rischiare e sono stato ricompensato con opere magnifiche e capaci d’intrattenermi per ore ed ore di puro intrattenimento; è stata ed è tutt’ora un’esperienza fantastica, una sensazione di freschezza che non provavo da fin troppo tempo che spero di cuore possa essere vissuta da sempre più persone. Non sia mai che proprio il mercato giapponese riesca ad esaudire quel desiderio di novità e appagamento che ormai da anni ricerchiamo con tanto ardore; la decisione finale se valga la pena di compiere o meno questo grande passo, comunque, spetta solo a voi.

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