Diciamocelo: The Evil Within l’abbiamo aspettato tutti, soprattutto noi amanti dei survival horror. Con titoli sempre più action e sempre meno survival, il genere ha perso moltissimi fan delusi da questo sempre più evidente cambio di rotta.
Sul web da anni si parla di un genere morto, un genere che dal lontano 2005 con l’uscita di Resident Evil 4 ha perso la sua strada. Le diatribe si sono accese furiose scatenando duelli all’ultimo flame. Di chi è la colpa? Dei videogiocatori che si sono rammolliti e adesso cercano giochi facili con cui passare il tempo? O è colpa delle malvagie software house che cercano di monetizzare il più possibile i loro prodotti dando alle masse ciò che vogliono?
Lungi da me dare risposta a tale quesito. Quello che voglio fare con questo editoriale è riflettere insieme a voi su di una domanda ben precisa: cosa vogliono le masse?
Cosa c’entra The Evil Within con questo discorso? Tutto. Ma andiamo con ordine.
Dopo i recenti videogiochi classificati come survival horror ma che, pad alla mano, si sono rivelati essere più action di Vanquish i videogiocatori sparsi per il globo hanno iniziato a lamentarsi di come l’industria videoludica li prenda in giro. Di come capisaldi del genere (vedere alla voce Resident Evil o Silent Hill) sono stati privati della loro essenza e trasformati in titoli dove i Mister Olympia del mondo videoludico vengono armati di RPG e scatenati contro orde di zombie. Di come alcune nuove Ip partite benissimo sono poi sprofondate anche loro nell’action puro (qualcuno ha nominato Dead Space?).
Sui forum, sui blog, sui siti d’informazione videoludica, sotto le recensioni, sotto i post di facebook, sui post-it di Francesco Sole si è chiesto a gran voce un titolo che tornasse ai fasti del genere, un gioco dove la carenza di munizioni ci possa costringere a scappare da quell’orrido mostro che si annida nell’angolino buio della stanza. Un gioco che ci faccia più esplorare che sparare, perché se vogliamo sparare ci compriamo Call of Duty.
A rispondere a queste richieste ci ha pensato Shinji Mikami, il papà di Resident Evil, promettendo all’orda di fan del genere che ci avrebbe pensato lui a regalarci un gioco che avrebbe riportato il genere ai fasti di un tempo.
E a provarci ci ha provato.
A quasi dieci giorni dall’uscita The Evil Within ha spaccato esattamente a metà i fan del genere.
Il gioco non è perfetto e – a dirla tutta – non spaventa. Tranne rari casi in cui salteremo sulla sedia grazie a momenti perfettamente studiati il gioco non ci farà spaventare quasi mai. Le ambientazioni ci terranno costantemente (o quasi) con l’ansia. Le poche munizioni, i nemici pericolosi (anche uno soltanto potrebbe portarci al game over), le musiche eccezionali fanno di The Evil Within il gioco che più si avvicina alle meccaniche survival di un tempo. Ed ecco quindi accontentata una delle due metà di cui accennavo poco sopra.
E l’altra metà?
Beh, l’altra metà si lamenta. Di cosa, esattamente?
Presto detto: di un sistema di controllo legnoso, delle novità inesistenti, della grafica scadente, del design dei mostri sottotono, del tempo e della pizza poco cotta.
La cosa che mi fa sorridere è che, in questa metà di videogiocatori delusi dal titolo sviluppato da Tango Gameworks e pubblicato da Bethesda, molti sono gli stessi che urlavano a gran voce di volere un gioco uguale ai vecchi Resident Evil o ai primi Silent Hill. Un gioco che lasciasse perdere tutte quelle novità apportate con il passare degli anni e tornasse alle atmosfere e al gameplay di una volta.
Per concludere e tornando alla domanda che mi sono voluto porre e ho voluto porre a voi, miei cari amici lettori, che cosa vogliono veramente le masse? Si lamentano che i videogiochi di oggi sono tutti improntati all’action, all’accalappiare la più gran fetta di pubblico possibile. Poi arriva qualcuno che cerca di andargli incontro, riproponendo un gioco che in tutto e per tutto si aggrappa al “c’era una volta” e loro chiedono dove sono le novità.
Il pubblico, quello dei videogiocatori nello specifico, è molto esigente. Si sa. Ma forse bisogna un attimo fermarsi, staccarsi dalla tastiera, posare le torce e i forconi virtuali e capire cosa si vuole realmente. Perché a oggi le idee sembrano veramente confuse.