Più realismo, meno divertimento. Questa è più o meno la tesi che da diverse generazioni di console aleggia nella mente di alcuni vecchi videogiocatori come il sottoscritto. Facebook è stato uno strumento importante per capire quanto questa idea sia ricorrente per quei videogiocatori che hanno vissuto appieno le prime generazioni ludiche ed i numeri ottenuti dai titoli “casual”, sono li a dimostrarlo.
Siamo più o meno tutti concordi: è stato divertente vivere il progresso tecnologico e videoludico fin dalla seconda metà degli anni ’80, un periodo in cui si sognava la realtà virtuale, ma si giocava con gli amici a calcio in mezzo le strade o negli oratori della città, intervallando sudate apocalittiche, sporco e tracce d’asfalto su ginocchia, gomiti e mani, con una bella partita ai videogiochi… magari a Track & Field!
È stato un periodo affascinante quello dei videogiochi appartenenti alle generazioni a 8 e 16 bit. Un momento molto importante per i pionieri di un mercato sull’orlo del declino, utile agli sviluppatori software di far leva sulla propria creatività per innovare nel campo della giocabilità e della longevità, rispetto alla qualità puramente tecnica che ormai sembra dominare incontrastata da circa dieci anni.
Videogiocare a cavallo degli anni ’80 e ’90 è stata un’esperienza incredibile, ma soprattutto indimenticabile. No, non c’entrano Gerry Calà, Jovanotti, Mancini o Walter Zenga intenti a farci sognare le home console SEGA e Nintendo con i loro coloratissimi videogames; si riusciva a far notte fonda anche con il solo Tetris nel tentativo di battere il record di linee detenuto dall’amico o dal famigliare su una console semplice, monocromatica, ma dannatamente calamitica come il caro Game Boy. Si perdevano allegramente varie diotrie solo perché “c’era tanta fantasia e amore” nei titoli rilasciati in quegli anni, dove l’idea contava molto di più del team e del nome che ti portavi sulle spalle.
No, non si sta accusando qualcuno di scarsa passione nello sviluppo odierno di videogiochi, ma è facile pensare che l’ago della bilancia si sia spostato verso l’importanza di vendere bene il prodotto, sfruttando l’impressionabilità della folla con la pubblicità. Questa è sicuramente l’arma migliore per spingere un titolo, soprattutto se associato ad immagini ultra dettagliate e scene al cardiopalma. A chi importa di vedere in trenta secondi un videogioco ben congeniato e pensato per far divertire, piuttosto che altro?
Quanta genialità c’era in Arkanoid o Pac-Man? Quanto Super Mario Bros. ha saputo dare ai videogiocatori di quel tempo? Sono domande semplici, alle quali le generazioni di oggi saprebbero difficilmente rispondere… eppure basta rifletterci su qualche minuto e fare delle ricerche in internet per provare a capire lo stupore di quei giocatori che oggi sono diventati genitori e professionisti, ma che nel loro cuore sono ancora profondi sognatori.
Noi ragazzi degli anni ’70 e ’80 siamo cresciuti così, immersi in un mondo fatto di sogni (nel bene o nel male), gli stessi che oggi stanno muovendo le acque in una scena indie sempre più importante e ricca proprio di quei videogiochi che fanno il verso alle creazioni delle prime generazioni videoludiche. Oggi più che mai è chiaro quanto non servano effetti grafici di ultima generazione per creare delle storie avvincenti e ricche di dettagli; basta semplicemente una chiara narrazione ed il giusto approccio per dar libero sfogo alle proprie emozioni e fantasia, impersonando così l’eroe di turno.
Accadeva così con il primo The Legend of Zelda verso la fine dei “mitici” anni ’80 o quei picchiaduro a scorrimento che solo Capcom sapeva fare così bene. Piuttosto che acquistare settanta euro di gioco o spenderne oltre 100 per delle collection con dei libricini o gift che una volta venivano dati anche gratuitamente, si preferiva fare comitiva nelle sale giochi o nei bar, anche con solo mille lire in tasca; si, era l’epoca dei grandi e veri videogiocatori, quelli che con “500 lire” riuscivano a finire quella follia di Golden Axe o capaci di passare l’intera giornata a battere amici e contendenti in Street Fighter II. Erano i tempi in cui spegnendo e riaccendendo alcuni cabinati, si ottenevano partite gratis e nei casi in cui si frequentava un ambiente nuovo, si “dava vita allo zio che lavorava in Giappone”. Sì, ogni scusa era buona per fare amicizia.
In quei luoghi si sono suggellate amicizie, progetti per il futuro ed anche litigi, ma erano gli anni del contatto reale con la vita, quella in cui si girava per le strade con i propri amici oppure nei campeggi per quei fortunati che riuscivano ad andare in vacanza in estate. Era quella vita che ti faceva sognare di giocare a River City Ransom e Double Dragon, solo perchè era da duri pestare i cattivi. Ogni ricordo si propone come spaccato netto con la realtà odierna, capace di mettere in luce l’evoluzione videoludica in quest’ultimo decennio.
Oggi il videogioco è spesso vissuto in solitaria, con amicizie virtuali riconoscibili da un avatar, un nickname e una voce con cui conversare nelle partite online. Non certo un male, ma una volta eravamo più “fighi” nello scambiarci di persona consigli e suggerimenti sul come battere il boss, trovare un oggetto segreto oppure sfidarci a suon di record con quelle maledette classifiche che venivano azzerate nel momento in cui il gestore del locale staccava la corrente.
Di quell’epoca ricordo con allegria le emozioni provate insieme ai compagni di viaggio, quasi tutti amanti del multiformato, nonostante il pacifico schieramento con uno o l’altro sviluppatore. Per farla semplice, un videogioco divertente lo era e basta. Credetemi, si faceva di tutto per poterlo giocare, anche a scapito di piombare a casa dell’amico alle due del pomeriggio o cercando un rischiosissimo scambio momentaneo di console.
C’era molto rispetto per le varie piattaforme ludiche e nessun disprezzo per gli sviluppatori che preferivano mettere figure cartoonesche, rispetto al maggior realismo degli sprites di Mortal Kombat. Non avevamo bisogno di sangue e violenza per definire un gioco adulto: bastava giocare a Maniac Mansion per sentirsi un po’ più grandi oppure sfiorare un Laser Disc per provare ad immaginare il futuro, nonostante non sia mai riuscito a capirci molto di quel dannatissimo Dragon’s Lair!
Era l’epoca del divertimento assicurato, del noleggio dei videogiochi e dell’acquisto saltuario di perle dalla rara bellezza, con possibilità di scambio cartuccia con l’amico. Oggi molto di questo non esistono più. Si gioca ancora con gli amici, ma il multiplayer locale è meno presente. Le giornate passate nel tentativo di finire Contra o titoli simili in compagnia sono ormai finite e le cooperative si affrontano online, con i rispettivi problemi di connettività o di fruibilità degli orari.
Oggi il videogames è simulazione, grafica complessa e lo si reputa adulto dalla violenza e dalla presenza di personaggi iper realistici… una visione che forse cozza con quello che è la natura stessa del videogioco. Oggi è il periodo dei Cliff Bleszinski che ironizzano sull’entrata nel mercato mobile di Nintendo; è il periodo degli sviluppatori spesso critici con le performance hardware come se fossero prioritarie, ma anche di quelli che si reputano videogiocatori pur facendo unicamente leva sul solo marketing e dimenticando che gli acquirenti hanno prima di tutto un cuore e un’anima.
Il nuovo mondo dei videogiochi non sembra più fatto di fantasia, di divertimento e quella giusta sfida che invogliava a non mollare il prodotto. Oggi, anche il videogioco fa i conti con una società che ha smarrito la via della frivolezza ed ha problemi a sognare. Abbiamo forse tutti bisogno di un nuovo salto verso il futuro, dimenticandoci almeno per un attimo di quei problemi a cui ogni giorno dobbiamo tener testa, comprese le performance numeriche su cui il mercato fa sempre più leva. Il mercato del retrogaming è ancora attivo e credetemi, vale ancora la pena investire sulle care e vecchie piattaforme per una rapida sessione ludica… senza ombra di dubbio ci aiuterà a ricordare o capire le care emozioni a cui molti di noi sono ancora legati.