L'avventura di Kratos e Atreus mi ha segnato nel profondo, e fatto riflettere.
Ho da poche ore “terminato” il nuovo God of War. Sono stati giorni di silenzio, di solitudine, e di estrema morigeratezza. A dispetto dell’evidente attesa che nutrivo per l’opera – e della sua natura – mi ci sono approcciato con la pacatezza e la libertà mentale che ciascuno dovrebbe far proprie. Lontano da recensioni, video, pareri, e soprattutto dalla mozione di un web sempre più schiavo dell’influenza, ho vissuto il prodotto nella maniera più intima e personale possibile, tentando di divincolarmi da tutto ciò che avrebbe potuto anzitempo condizionarmi. Aggrappato solo ed esclusivamente al bagaglio di quanto visto e toccato con mano, ho abbandonato persino il fervore che il reveal trailer aveva sobillato in me – leggasi pessimismo cronico, a voler essere proprio meticolosi. Oggi, a dispetto di un umore usualmente perfuso di negatività e dopo un subbuglio di sensazioni esasperate, posso affermarlo a gran voce: God Of War è un’opera preziosa. Per me, forse più di ogni altra. Un’opera che ha ghermito con ferocia quel dannato pessimismo e l’ha brutalmente dilaniato. Esattamente come il Fantasma di Sparta farebbe con le membra del Draugr di turno.
God of War è croce e delizia. Croce per una fetta di società consunta dal conformismo, vittima dell’ipocrisia e finta serva di un politically correct becero e nocivo, che certamente non perderà occasione per imputare all’ultima epopea di Santa Monica Studio l’ennesima manifestazione gratuita di ira e violenza in un esponente del medium videoludico. Delizia per lo stesso motivo di cui sopra. Oltre che per tutti gli altri circa centocinquanta motivi per i quali questo titolo è oggettivamente magnifico. Non sto qui certo ad illustrarveli; non mi compete, e non è mia intenzione in questa sede essere prolisso. Quel che mi preme, invece, è comunicare a chiunque stia leggendo questo breve editoriale, videogiocatore incallito o casalinga in grembiule che sia, di come i videogiochi siano potenti. Di come possano cambiarci, segnarci, istruirci. Emozionarci. Provare per credere. Esiste forse del riprovevole in tutto ciò? In fin dei conti, sappiamo bene tutti qual è la vera criticità: chi demonizza i videogiochi come il male assoluto, non li conosce affatto. E questo è un problema tutt’altro che confinato a questa singola dimensione, ma andiamo oltre. God of War è un esempio di quanto appena affermato. Lo è stato per me, e potrebbe esserlo anche per voi. Così come no, per carità. Il mondo è bello perché è vario – dicono, ma devono ancora convincermi appieno. Il viaggio di Kratos e Atreus mi ha iniziato ad un immaginario che ignoravo, per utilizzare un eufemismo. Ed ha acceso in me una famelica sete di conoscenza che non avrei mai neanche lontanamente immaginato di poter sperimentare. Il viaggio di Kratos e Atreus è tutt’altro che una mera crociata di sangue, morte e violenza. Pace all’anima di chi non riesce o non vuole scavare a fondo, avere il quadro completo. God of War è un’esperienza matura, per carità, ma formativa. È una storia di umanità narrata dalla celestiale prospettiva della divinità. È la storia di un Dio che non sa essere padre, che non sa chiamare il figlio per nome. È la storia del comune disagio che il mestiere più difficile al mondo può generare, in ciascuno di noi. A dispetto dell’iperbole sontuosa su cui l’intera saga si articola, la dimensione abbracciata è estremamente vicina al nostro vissuto, alla vita di ciascuno di noi, alla dimensione terrena. Rifletteteci, se lo avete giocato. Approfondite, se non lo avete fatto.
Questo God of War mi ha colpito a fondo. Mi ha cambiato. Mi ha risvegliato una curiosità inedita e famelica, mi ha divertito spassionatamente – e continuerà a farlo. Mi ha emozionato, quasi commosso. Mi ha fatto riflettere. Mi ha anche mostrato una parte difficile e molto personale della mia vita. Mi ha smentito e insegnato, sbeffeggiando un’indole pessimistica rea di congelare il piacere e il fervore di un’aspettativa elevata. Il viaggio di Kratos e Atreus ha portato inoltre, con il suo epilogo, all’epifania di un cimelio raro, di un’esperienza in grado di accendere un fioco lume di malinconia. Quella stessa malinconia che si annida nell’animo di chi ha coscienza di aver contemplato un qualcosa di sublime e dalla fugace bellezza, possibilmente inarrivabile ed irripetibile.
Luca Del Pizzo.