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Recensione

Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain – Recensione, l’ultima opera firmata Kojima

Un titolo che rimarrà per sempre nella storia videoludica. L'ultimo capitolo della saga ad essere sviluppato dal creatore della stessa, Hideo Kojima.

Fin dai tempi del Philips CD I 450 (datato 1991), la mia prima vera console, i videogiochi sono la mia più grande passione. Tuttavia, Il mio primo ricordo riguardante la saga di Metal Gear Solid, risale ai primi anni 2000, grazie al fatto di aver giocato su PlayStation 1 – con notevole ritardo – al primo, fantastico, incredibile capitolo. È anche vero che ai tempi ero alquanto piccolino e più che giocare, fremevo dalla voglia di osservare all’opera mio fratello, alle prese con il primo episodio. Insomma, all’inizio mi preoccupai anzitutto di osservare le meccaniche basilari per poi prendere possesso del pad e iniziare così la mia personale avventura.

Quest’oggi con grande sorpresa ed emozione, mi trovo a recensire – con estrema calma e dedizione – il nuovo Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, ultima produzione del franchise ad essere sviluppata e firmata da Hideo Kojima, dopo il prologo piuttosto ingannevole – vista la scarsa longevità -, ma studiato dal punto di vista del marketing, parlo ovviamente di Metal Gear Solid V: Ground Zeroes, rilasciato allo scopo di ingolosire i fan di vecchia data, ma soprattutto di arruffare i primi ingenti guadagni.

Quest’ultima è stata – probabilmente – una delle cause che ha contribuito alla rottura dei rapporti lavorativi tra il designer giapponese e Konami, il primo un perfezionista scrupoloso di altri tempi, la seconda attenta a tirare acqua al proprio mulino per guadagnare moltissimo dai propri investimenti. Niente di strano, sia chiaro, ma i disguidi tra le due parti dovrebbero essere sorti alla base di motivi prettamente economici e di diversa mentalità.

Metal Gear Solid V: The Phantom Pain estende i confini (in tutti i sensi) della serie, diventando il primo capitolo free-roaming dell’IP di Konami. Un cambiamento che era stato solamente accennato con Metal Gear Solid V: Ground Zeroes, caratterizzato solamente da una zona grande e chiusa, ma di certo non immensa rispetto ai territori che ho avuto il piacere di solcare nell’ultima fatica di Kojima. Tutto questo vuol dire libertà di approccio e delle significative rivoluzioni al gameplay. Scoprite questo ed altro nella recensione dedicata.

Dalle stelle alle stalle. Big Boss deve riconquistare tutto ciò che ha perso

È alquanto scontato dire che per godere appieno della storia di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, si debba giocare al prologo costituito da Ground Zeroes, nodo di allaccio importante per tutta la narrazione. Infatti, le vicende di The Phantom Pain sono successive a Ground Zeroes, e vedono Big Boss (chiamato Venon Snake) alle prese con un mondo profondamente cambiato nel corso dei nove lunghi anni di coma che lo hanno tenuto bloccato in un freddo letto di una clinica a Cipro. Il risveglio traumatico lo ha cambiato e ha acceso in lui la miccia della vendetta. Ricordate: meglio non mettersi contro Snake, potreste pentirvene.

Il pericolo, però, che sto per incorrere io stesso è quello di spoilerare la trama, quindi mi limiterò a scrivere che Big Boss e il suo team (o quello che ne rimane) dovranno per forza di cose, ricostruire la propria Mother Base, portando a compimento delle importanti missioni in diversi territori (si inizierà in terra afgana), vendicandosi contro chi gli ha tolto il potere e la dignità. Vi basti sapere che Diamond Dogs, questo è il nome della nuova organizzazione mercenaria, sarà capitanata dal nostro Snake, da Miller, e infine da Ocelot.

Quello su cui mi concentrerò ora riguarda, invece, la formula di gioco. Quest’ultima – come ho scritto inizialmente – è impostata sul free roaming e, per quanto possa gettare aria fresca sul franchise, non mi ha del tutto convinto. La trovo senz’altro interessante e ben studiata, ma credo fortemente che così facendo Kojima Productions  abbia snaturato il concetto di stealth game. Non fraintendetemi, questo non vuol dire che le fasi furtive vengano meno, ma allargare il concetto a un territorio troppo esteso può risultare controproducente. Con The Phantom Pain, infatti, si può agire in maniera furtiva e silenziosa, ma c’è anche la possibilità di imbracciare l’artiglieria e sparare a più non posso, trasformando di fatto il titolo in un third person shooter puro e alterando quindi la formula originale. Il confronto a fuoco farà di conseguenza scattare l’allarme e la controffensiva nemica, a meno di riuscire a stanare per tempo le forze ostili senza fare rumore… C’è poi da evidenziare la presenza del ciclo giorno notte, aggiunta azzeccata perché ci dà l’onere di decidere in quali condizioni affrontare le missioni.

Questa strada intrapresa da Kojima e il suo team, la reputo azzeccata nei confronti di una larga cerchia di utenti, forse meno per i fan di vecchio stampo e restii a cambiamenti troppo accentuati ed evidenti.

Il free roaming e la possibilità di scegliere con quale atteggiamento rispondere sul campo di battaglia, aumenta notevolmente la longevità del titolo, con tantissime attività (primarie, secondarie e opzionali) da affrontare e allarga in maniera esponenziale il pubblico che può e potrà un giorno, acquistare questo capitolo. La gestione della Mother Base, all’inizio risulterà essere alquanto relativa, ma per far crescere il proprio esercito, per potenziare i propri gadget, le proprie armi e acquistarne di nuove, dovrete per forza di cose riservargli una certa importanza.

A soffrire di più, però, come prevedibile, è stata la componente narrativa. Non che questa sia sottotono, a tal proposito il prologo è quanto di più bello mai visto in una produzione videoludica. Inizialmente la giocabilità viene messa in secondo piano e la scena viene lasciata alla narrazione, in grado di regalare delle sequenze davvero ispirate, fantastiche, ma alquanto crude. Dopo l’introduzione avviene esattamente l’opposto, con la componente gameplay che prende posizione in maniera massiccia, diluendo notevolmente gli accadimenti relativi alla story line.

Tante armi e un… semplice (?) binocolo

Il gadget, forse, più importante per Snake è il binocolo, utilissimo per osservare il campo di battaglia prima di intervenire e di individuare i nemici, marchiandoli e rendendoli visibili da ogni dove. Come dicevo, potremo agire in qualsiasi maniera, distruggendo – ad esempio – stazioni radio per isolare il commando nemico, impedendogli di chiamare rinforzi. Potremo inoltre spegnere le luci oppure agire in maniera cauta ed intelligente per mettere i nemici fuori gioco e depredare le risorse presenti nella base.

Con il sistema fulton (una sorta di pallone aerostatico con funzione opposta al paracadute) vi sarà la possibilità di prelevare i nemici addormentati o storditi temporaneamente, allo scopo di reclutarli con o senza la loro volontà nella vostra nuova armata. La valuta del gioco, costituita dai punti GMP, è di vitale importanza, perché è fondamentale per chiedere supporto sul campo, rifornimenti, per potenziare l’arsenale e per ampliare la Mother Base. Le possibilità sono davvero infinite e una recensione non può essere assolutamente sufficiente per raccontarvi a parole quanto è grande, immenso, inesplorato il mondo di The Phantom Pain. Non solo a livello di estensione dei territori, quanto alle possibilità e potenziamenti che si possono ottenere nel lunghissimo arco dell’avventura. Quest’ultima viene stravolta nella seconda metà di gioco, momento in cui il giocatore sarà costretto a ripetere missioni dallo stesso schema con un superiore coefficiente livello di difficoltà e ad alcune condizioni. Non si tratta di un extra, attenzione, ma di una variante necessaria per avanzare con la trama ed arrivare ai titoli di coda del titolo.

In generale, gli obiettivi delle missioni sono tantissimi, quindi la struttura di The Phantom Pain ci dà la possibilità di rigiocarle per portare a compimento le mansioni lasciate in sospeso e non completate. Un buonissimo modo per rimpolpare l’azione di gioco. L’unico “problema” relativo è quello di allungare i tempi di narrazione, andando quindi a spostare il baricentro della trama da sempre punto forte della produzione. Questa non è da intendersi come una critica, ma piuttosto come un rischio preso dal famoso designer Kojima, concentrato più che altro a creare il più grande Metal Gear di sempre. A conti fatti, non c’è che dire: ci è veramente riuscito. Ovviamente realizzare un mondo così grande, con così tanti nemici su schermo, così tante possibilità, ha però messo nella lista della spesa numerose imperfezioni a livello di gameplay da correggere: Un cavallo che zompa dappertutto e che non conosce limiti, la velocità di Snake eguaglia quella di Bolt, l’intelligenza artificiale dei nemici è medio-bassa, seppur ottima nelle sequenze di intermezzo, la natura cross gen della produzione ha frenato l’eccellenza grafica.

È arrivato il momento di analizzare questo ultimo concetto. Il Fox Engine è stato utilizzato davvero bene e all’infuori di caricamenti un po’ lenti delle texture in lontananza, non presenta particolari problemi. I territori sono un bel vedere, anche se il fatto di riproporli l’uni simili agli altri (in maniera evidente nel territorio dell’Afghanistan) non mi ha fatto che pensare a un utilizzo piuttosto corposo di asset già utilizzati.

Le caratterizzazioni dei volti e dei corpi dei nemici, così come le loro movenze, offrono un colpo d’occhio favoloso e ciò non fa che assottigliare ulteriormente il confine tra videogioco e cinema. Kojima ci sta abituando davvero bene e speriamo di godere delle sue opere anche in futuro. Infine, per quanto riguarda il comparto audio, non ci sono parole. Tutto è riprodotto fedelmente e non ho notato imperfezioni o problemi, ed è un elemento davvero importantte per tutta la produzione. Un film senza un ottimo sonoro, non è un gran film.

Ebbene, questo vale anche per The Phantom Pain, che ha una regia da colosso hollywoodiano, e una giocabilità da grande videogioco. La longevità? Questo non posso assolutamente dirvelo con certezza. Dipende dall’abilità da ogni videogiocatore e dalla sua voglia di esplorare ogni territorio, affrontare ogni missione secondaria e opzionale, spulciare ogni opzione della Mother Base per potenziare il proprio commando, fino ad imporre il proprio potere e dominio nei confronti di tutti quelli ostili. Siete pronti a giocare un quantitativo enorme di ore di gioco? In attesa, ovviamente, del rilascio di Metal Gear Online, previsto per i primi giorni di ottobre. Ci sarà da divertirsi.

I pro

  • Metal Gear Solid ora è un free roaming
  • Il gameplay è come la prima volta! Attira, stimola ed è diverte
  • La regia è uno dei punti forte della produzione
  • Tantissime missioni e attività da portare a compimento

I Contro

  • Metal Gear Solid ora è un free roaming
  • Ci sono dei problemi da correggere
  • L'intelligenza artificiale è poco reattiva
  • Nella seconda parte di gioco, è presente la ripetizione di alcune missioni con un'elevata difficoltà

Voto Globale 8.5

Hideo Kojima ci ha voluto stupire. Konami può anche aver deciso di togliere dalle cover la dicitura "A Hideo Kojima game", ma questo non è sufficiente. Ogni missione principale evidenzia in maniera indelebile il nome del designer giapponese e quello del suo vecchio team: Kojima Productions. Kojima ha avuto il merito di stravolgere la formula di un titolo che lo ha reso leggendario. Ha azzardato e lo ha trasformato in un free roaming di alto livello. Con tutte le difficoltà e i problemi presenti nel gioco, il titolo cattura, diverte ed emoziona. Un po' strana la scelta intrapresa per la seconda metà di gioco, ma d'altronde Kojima è così. Trolla, azzarda, ci stordisce e poi ci stupisce. Dietro la storia piuttosto complessa di Metal Gear Solid, se ne nasconde un'altra; quella di un designer che si è burlato di tutto e di tutti, ma che ha dalla sua parte un talento inconfondibile: quello di stupire e di lasciare un segno... indelebile.

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