Abbiamo passato il giorno a correre, e la notte a nasconderci. È il miglior gioco a base di non morti di sempre?
Techland prima del 2011 era una software house avvolta nell’ombra, decisamente poco conosciuta di cui si parlò poco. Seppur a lei si deve l’ottimo Call of Juarez Bound in Blood, spiccò il publisher, Ubisoft, piuttosto che il suo creatore. Al contrario non fu per il pessimo seguito, The Cartel, dove Techland subì le ire dei fan della serie. Con la reputazione che si era creata, il loro più grande progetto ne poteva essere intaccato. Dead Island era sicuramente il titolo della compagnia polacca che più aveva attirato l’attenzione su di sé. Per la qualità del titolo? Non proprio. O meglio, nessuno seppe nulla del gameplay, ma tutti vollero metterci le mani addosso dopo l’emozionante trailer di annuncio. Alla sua uscita i risultati non erano quelli sperati, ma servirono per aumentare la popolarità di una Techland che dimostrò di avere un sacco di idee originali in testa.
Una di queste è Dying Light, figlio della loro serie a base di zombie più famosa. È segno di come la software house polacca voglia ideare nuove IP dalla loro dedizione al protagonista di questa recensione – e a Hellraid di prossima uscita – e di come abbiano lasciato Dead Island 2 ad un secondo sviluppatore, Yager Development. Dying Light nasce con l’idea di prendere quanto imparato con Dead Island e donargli una libertà maggiore. Il connubio ha funzionato?
Il nostro protagonista si trova a dover paracadutarsi ad Harran, una città ormai distrutta da un letale virus che ha trasformato la maggior parte dei suoi abitanti in “mangiacarne”, così come i sopravvissuti li chiamano. Noi lavoriamo per il GRE, un’associazione umanitaria che ci affida il compito di trovare degli importanti documenti. Documenti i quali dipende il futuro della razza umana, il processo per la cura del virus è infatti trascritto in questi file. Il lavoro fin qui sembra fin troppo semplice, il problema è che questi sono custoditi dal capo di una banda locale e, nelle attuali condizioni, le trascrizioni sono incomplete e chiunque le sfrutti è in grado di creare una sostanza altamente tossica.
La nostra missione non inizia nel migliore dei modi: arrivati a terra veniamo aggrediti da una delle bande locali, un nostro sparo attira i non morti che corrono in massa verso la posizione. A soccorrerci intervengono due individui, i quali poi scopriremo appartenere ai sopravvissuti che risiedono alla Torre. La sede dei runner. Qui inizierà il nostro addestramento con il gruppo di sopravvissuti che diventeranno la fazione che aiuteremo. Noi rimarremo comunque sotto copertura per il GRE, il quale ci dirà di continuare ad assecondare ogni richiesta che ci verrà rivolta, a prescindere dalla sua entità, ed è qui che cominceremo a porci un sacco di domande. Quanto è davvero “umanitaria” questa associazione? Qual è il suo scopo finale? Quali le sue reali intenzioni?
Ci viene naturale confrontare Dying Light con Dead Island, lo faremo spesso durante la recensione. Iniziamo subito con il dire di come lo sviluppatore abbia fatto dei grandi passi avanti con la narrazione e la trama di fondo, la quale risulta decisamente più interessante rispetto ai lavori precedenti. Non solo, anche le cut scene e gli avvenimenti sono più complessi. I personaggi che abitano Harran sono carismatici e ben caratterizzati, si vede come Techland abbia strizzato un occhio a Capcom con gli psicopatici di Dead Rising, e l’altro a Ubisoft con Far Cry, ormai un simbolo per quanto riguarda il donare personalità agli abitanti che vivono i suoi mondi.
Ha ragione Woodkid quando dice di correre perché stanno cercando di prenderci. Un piccolo collegamento musicale che calza a pennello per agganciarci al parkour. Questa disciplina l’abbiamo vista in diversi giochi ed è sempre riuscita a darci una sensazione di libertà. Come amplificare ciò? Unendo questa ad una minaccia costante. I runner in Dying Light corrono per la vita, non solo per la propria, ma anche per salvare quella degli altri. In un mondo che ha i giorni contati, gli unici in grado di spostarsi per Harran in cerca di medicine e cibo evitando i non morti sono proprio loro. Ed è questa l’idea che ruota intorno ad ogni elemento del titolo di Techland, non solo la storia ne è influenzata, ma l’intero gameplay. Le nostre gambe sono l’unico sistema di movimento, non ci sono veicoli e neanche ne sentiamo il bisogno.
Seguendo la filosofia del parkour, correndo possiamo aggrapparci alla maggior parte delle superfici, scalare e continuare dritti verso la nostra destinazione. Arrivarci passando da un tetto all’altro è davvero la scelta migliore che possiamo fare. Toglietevi dalla testa l’approccio ai combattimenti alla Dead Island. Lì, per forza di cose, eravamo spesso costretti a menare le mani. Dying Light si differenzia proprio sotto questo aspetto, la prima scelta è correre, scappare dalla orde di non morti, potremmo scegliere di affrontarli solo in caso sia strettamente necessario. Essi infatti sono estremamente resistenti ai nostri colpi, oltre ad essere in grado di toglierci la vita con un paio di manate.
Dobbiamo anche tenere conto della fragilità delle armi corpo a corpo, una volta distrutte possiamo sì ripararle, ma per un numero limitato di volte. Questo ci porta a tenere presente che se possiamo evitare uno scontro, è bene farlo, potremmo infatti rischiare di dover combattere un gruppo di infetti senza armi sufficientemente forti. Anche la componente survival ha un suo spazio ben definito. Tutto ciò che può essere utile ad allungare la nostra permanenza vivi ad Harran può essere creato. Le bende per curarci sono sicuramente un bene primario, guai rimanere senza. I materiali per crearle però, non sono così comuni, dovremo setacciare la città in cerca dell’alcool necessario, il quale, tra l’altro, è utile anche per creare le molotov. Sta a noi scegliere se usarlo per difenderci o per curarci, tenendo presente che potremmo rimanere senza materiali nel momento del bisogno.
La crescita del protagonista è davvero marcata e, man mano che saliamo di livello, il coraggio nel voler affrontare gli zombie aumenta nel giocatore stesso. Sono presenti tre distinti alberi delle abilità. Il primo è legato al completamento delle missioni, principali o secondarie che siano e ci permette di aumentare le nostre conoscenze della sopravvivenza, ci permette per esempio di costruire determinati oggetti o di ottenere sconti permanenti nei negozi. Lo spostamento è una meccanica talmente importante in Dying Light che il secondo albero è dedicato proprio all’agilità, permettendoci al salire di livello di imparare nuovi movimenti acrobatici utili a sfuggire dai nemici, oppure per scalare più rapidamente un edificio. Dobbiamo però dire come la componente parkour avrebbe potuto godere di un maggiore set di mosse e come, seppur sia in grado di offrire grandi soddisfazioni, non sempre funziona come dovrebbe, mancando di alcuni “agganci” lì dove dovremmo aggrapparci.
L’ultimo albero è legato al combattimento, il quale ci permette di sfruttare al meglio le armi create e le varie tipologie di armi bianche. Muoviamo anche qui un appunto simile a quello fatto poco sopra. Man mano che proseguiamo sblocchiamo sì diverse mosse aggiuntive, ma il combat system di base ha un grande problema: è quello di Dead Island. Ci ritroviamo quindi con le stesse criticità, la prima di tutte è che l’attacco sostanzialmente è unico. Abbiamo sì il calcio per sbilanciare il non morto di fronte a noi, ma manca una maggiore profondità quando si vanno a menare i fendenti.
Nella nostra recensione di Riptide, sottolineammo come le armi da fuoco furono state inserite in grande quantità e di come usandole non ci fossero particolari handicap. Dimenticatevelo, in Dying Light sparare anche solo un colpo significa aver bene in mente ciò che si è fatto e delle sue conseguenze. Lo stesso vale per gli esplosivi. Fare rumore non solo attira i classici zombie, ma anche i Virali, una specie decisamente più veloce ed aggressiva.
Abbiamo quindi visto come Techland abbia voluto rendere Dying Light un titolo più ragionato, dove ogni azione deve derivare da una precisa scelta. Una di queste è: dormo o esco questa notte? Dove lo sviluppatore ha sempre voluto porre l’accento pubblicizzando il titolo, è il ciclo giorno notte. Questo non è premeditato (o meglio, non sempre) in base alle missioni, ma il tempo scorre realmente ad Harran e mentre stiamo girovagando per i suoi quartieri potrebbero calare le tenebre. La notte è un vero incubo, ed è uno dei nostri maggiori nemici. L’atmosfera generale, condita dalle urla e i versi dei mangiacarne rendono l’intera esperienza diversa. Le strade sono buie, ad illuminare il nostro percorso la sola nostra torcia, che sicuramente non aiuta più di tanto a vedere cosa ci attende davanti a noi.
Dimenticate gli immobili non morti, il buio nasconde i Notturni. Creature che si manifestano solo dopo il tramonto, a causa della loro debolezza alla luce, veloci e temibili. Dovremo quindi fare il modo di passare inosservati. Come nei più classici stealth, sulla mappa compare la loro posizione con tanto di cono visivo e, nel caso ci vedessero, sulla loro testa comparirà un indicatore di visibilità. Il ritmo di gioco cambia quindi, dove di giorno la velocità la fa da padrone, durante la notte, è meglio pianificare al meglio il percorso da prendere. Nel caso in cui ci scoprissero, partirà un vero e proprio inseguimento con noi costretti alla fuga, la quale si concluderà nel momento in cui usciremo dal loro raggio d’azione.
Come scritto poco sopra, la città è abitata da svariati personaggi. Questi aiutano, per quanto strano possa sembrare, a rendere Harran “viva”, realistica. Non solo alcuni di loro ci affideranno delle missioni secondarie, ma altri vorranno semplicemente condividere la loro storia, oppure gli servirà una scorta o ancora qualcuno che li salvi mentre dei banditi li stanno depredando. Il tutto mentre noi stavamo percorrendo le strade in direzione di un altro obiettivo. Decine e decine sono i compiti secondari i quali andranno a farci accumulare ore di gioco, già di per sé oltre la quindicina solo per le missioni principali.
Appena ammiriamo dall’alto Harran è difficile trattenere lo stupore. La realizzazione tecnica e artistica svolta dallo sviluppatore polacco è semplicemente stupefacente. La palette di colori è azzeccata e, unita alle texture di alta qualità, riesce a realizzare un panorama che non fatichiamo a definire realistico. Realistico in uno scenario apocalittico come quello di Dying Light, ed ecco che nell’immenso orizzonte visivo, ammiriamo il fumo nero provenire dai grattacieli di una città in rovina. Peccato per un leggero aliasing, che sporca la pulizia generale. Ciò che più cozza con quanto di positivo detto sopra è il riciclo di alcuni modelli degli NPC e una poca inventiva nella creazione delle specie di non morti. Questi sono stati ripresi dai Dead Island e inseriti qui con un nuovo look mantenendone però inalterate le animazioni, così come quelle assegnate ai nostri attacchi.
Di Techland, continuiamo a non capire la scelta di inserire per forza nei suoi titoli degli “automatismi”. In questo caso, se ci avviciniamo ad uno zombie, questo cercherà di morderci ed entreremo in una sequenza dove premere a ripetizione il tasto a schermo. Il problema è che questa scatta troppo spesso e fin troppo bonariamente, a distanze generose, oppure anche quando stiamo correndo di spalle. Concludiamo con un ottimo lavoro sulla parte audio, i versi, le urla e i rumori causati dagli zombie sono ottimamente integrati nell’atmosfera. Il doppiaggio italiano gode di una scelta di prim’ordine delle voci dei vari personaggi, peccato per il labiale fuori sincro.
Techland ha fatto passi da gigante. Non possiamo che complimentarci per il lavoro fatto con Dying Light, che non è perfetto, assolutamente. Lo sviluppatore è riuscito a prendere una disciplina come quella del parkour ed unirla al concetto di corsa per la vita. Il mondo “zombesco” l’aveva già creato, doveva semplicemente unire le due cose. È un peccato che abbia ripreso svariati elementi da Dead Island, come il poco riuscito combat system, ma ha migliorato enormemente la qualità della narrazione messa in gioco, così come la trama e la caratterizzazione personaggi. Tutti gli avvenimenti, le missioni primarie e secondarie sono il segno di un prodotto di qualità, tutto ciò è infatti ben realizzato e diversificato. La parte survival si prende una buona fetta delle meccaniche di gioco ed aiuta a rendere il titolo più ragionato. Il parkour è sì soddisfacente, ma non sempre funziona come dovrebbe, questo, condito dai soliti automatismi tipici dello sviluppatore, rendono l’esperienza non sempre piacevole.